Tra gli Yanomami dell’Alto Orinoco, il viaggio – 1997
Spedizione tra gli Yanomami – L’idea e l’inizio del viaggio
Le quattro del mattino ci sorprendono sulla pista dell’aeroporto di Puerto Ayacucho, capitale dello stato delle Amazonas, all’estremo sud del Venezuela… e ci chiediamo ancora “perché ?”.
Tutto quanto, infatti, è nato rapidamente attorno a un affollato tavolo di carte universitarie, sulla scorta delle discussioni sul processo di globalizzazione e con negli occhi i tanti documentari che ci ricordano tigri che muoiono, elefanti che “resistono”, piante che si avvizziscono, ecc.
Mai, tuttavia, tanta preoccupazione e documentazione per le numerose culture che vanno scomparendo nel mondo. Quasi che quell’inevitabile globalizzazione di cui si parla, debba necessariamente concretizzarsi nell’omogeneità culturale più assoluta.
Al contrario, questo è stato il nostro punto di partenza, solo la valorizzazione di ogni singola cultura, sola la possibilità che ciascuna cultura ha di esprimersi autonomamente nel rispetto reciproco, solo questi possono essere i presupposti per la vita del XXI secolo.
Da questi ragionamenti alla pista di decollo in Amazzonia il percorso è ancora da chiarire. Su quei presupposti è nata l’idea di documentare e, soprattutto, dare voce alle culture “altre”, quelle più a rischio e in via di estinzione. Tra queste, che sono molte più di quello che si pensi, sono stati scelti gli Yanomami. Perché sono già un simbolo, per tanti, delle culture che scompaiono e della ricerca di un progresso non solo eco-compatibile, ma anche culturalmente compatibile.
Quelle che seguono sono le note tratte dal diario di bordo che il gruppo (composto da Marco e Irene, Michele e Barbara) ha redatto allora durante il viaggio nell’aprile e maggio del 1997. La spedizione ha riportato numeroso materiale iconografico (fotografie in grande formato, diapositive e filmati) che è a disposizione per mostre e conferenze.
La luce dell’alba comincia a diradare il buio sull’aeroporto dove l’aerotaxi aspetta.
In sessanta giorni di lavoro intenso organizziamo la spedizione. Almeno nelle sue linee principali e nel dettaglio degli intenti della ricerca.
E’ il 18 aprile quando l’aereo ci trasporta a Caracas: il portello ci catapulta nel Nuovo Mondo.
Uno stato, il Venezuela con circa 20 milioni di abitanti, cioè un terzo dell’Italia, grande 3 volte l’Italia. Di questi, 315.000 sono Indios di quasi trenta etnie differenti. La massima concentrazione di loro, 45.000 vive nello stato d’Amazzonia (ai confini con il Brasile), che è grande come metà dell’intero Venezuela. Gli Yanomami in terra Venezuelana sono circa 9.000, raddoppiano calcolando le altre tribù che vivono in area brasiliana, sotto il tiro dei garimpeiros .
C’è tanto spazio per ciascuno: ma ogni tanto non sembra, nei ranchitos, le baraccopoli delle città oppure nei bongo, le piroghe degli indios. In entrambi i casi si scopre la comune tendenza degli individui a concentrarsi: spalla a spalla, ancora più sudati per il caldo, ancora più irritabili per lo spazio artificiosamente ridotto.
Siamo in uno stato intricato, perché interamente coperto dalla grande foresta. Non facilmente percorribile, perché esistono solo vie d’acqua, marrone e densa d’argilla in sospensione, e perché la maggior parte dell’area è chiusa agli stranieri. Si entra solo con lunghi e complicati permessi. Noi siamo stati tra i pochi a poter entrare, ad avventurarsi fino alla Sierra Parima.
Il sole timidamente è sorto, si fa largo tra le nebbie dell’umidità notturna che faticano a lasciare il sottobosco della foresta: che peso volare!
Da Caracas a Puerto Ayacucho è un balzo sul DC9. Banale. Poi Puerto è una scoperta piacevole, sulle rive dell’Orinoco, di fronte alla Colombia: il tramonto che stiamo guardando è uguale a quello che stanno guardando i narcos al di là della frontiera. E’ bellissimo per entrambi. Anche se forse il rosso che barbaglia sulle acque ha per noi ricordi di esperienze meno trucide.
In sette pigiati e un cane: totale 500 chili con bagaglio e pilota. Per fortuna siamo magri e non mangiamo molto. Abbiamo dovuto rispettare la regola, con rigidità, già quel gabbiano che sembra essere l’aereo è in realtà una pesantissima oca dalla pancia grassa e piena.
A Puerto si decide il nostro destino. Sono due giorni di negoziato. Non ci sono i permessi. Non quelli federali e sembra che (forse, tuttavia, è probabile…) essendo La Esmeralda la municipalità che ha diritto sulle zone proibite che interessano, l’Alcalde, cioè il sindaco, possa rilasciarci le autorizzazioni. Otteniamo la sua firma e il suo timbro. Ma poi c’è il consiglio degli Indios, che riuniti a Puerto passano una notte a decidere sulla nostra sorte. Spendiamo due giorni negoziando, alternando l’entusiasmo della partenza verso l’ignoto che ci aspetta con lo scoraggiamento di chi si vede bloccato, fermato, azzoppato mentre di lontano mira il traguardo. Squilla la tromba si parte! Gli Yanomami hanno detto sì. La nostra assicurazione sulla vita è stipulata: perché partire significa affidarsi completamente a loro. Nessuno, neppure noi, sa con esattezza dove andremo, nessuno ci verrebbe a cercare. Ma queste sono cose che si pensano al ritorno o le pensano quelli che restano a casa.
In questo caso abbiamo annusato giusto: Lucio ci accompagna. Un indio Yanomami, comisionado delle tribù, cioè loro rappresentante presso il commissariato Indio, ci farà da interprete e guida nella foresta.
Semplicità e dignità, sono il tesoro offerto dalla sua amicizia.
Dunque di corsa a fare la spesa:
- 6 machete,
- 6 coltelli,
- 3 lime,
- 2 seghe,
- 1 chilo di piombo da pesca,
- 6 rotoli di nylon sempre per pescare,
- 6 scatole di ami (enormi: che cosa c’è dentro all’Orinoco?),
- 4 chili di caramelle,
- 6 metri di stoffa di cotone rossa.
Questi saranno i nostri doni per le tribù Yanomami che ci ospiteranno. Poi per noi, l’amaca con la mosquetera, due scatole di cartucce pesanti, rhum, olio per il motore e una grande pentolaccia.
L’aereo si alza con il sole. Il cane a bordo guaisce e piange. Il pilota lo vuole scaricare nel mare verde. Voliamo via.