Cucine e mercati sulla Via della Seta
Le nostre esperienze gastronomiche lungo la Via della Seta sono state molteplici e, di massima, positive. Dichiariamo subito che gli aspetti negativi hanno riguardato esclusivamente il consumo di alcolici locali, confermando in tutti noi lo sciovinismo già radicato dell’esclusiva preferenza a vino e alcol di origine italiana. In particolare, nella Hunza Valley abbiamo assaggiato una bottiglia del liquore locale chiamata Arak, una sorta di acquavite di more di gelso, che senza lode e senza infamia è tuttavia inadeguata a un consumo durante il pasto, ben lontana dall’Arak più familiare del Medio Oriente.
La cosa più divertente è che viene anche chiamata l’acqua degli Hunza, con riferimento alla “mitica” acqua che nascondeva i segreti della longevità di queste popolazioni:
“There are five places on Earth where the people routinely live to over 120 years of age in good health with virtually no cancer or dental caries (decay of a bone or tooth), where they remain robust and strong and are also able to bear children even in old age, and the most famous of these, Hunza in the Himalayas, has people who live to 120-140 years old. There are also villages in France where the people are extremely healthy and other villages where the people are run-down. Much research has proven conclusively that the major common denominator of the healthy long-living people is their local water. Dr. Henri Coanda, the Romanian father of fluid dynamics and a Nobel Prize winner at 78 yrs old, spent six decades studying the Hunza water trying to determine what it was in this water that caused such beneficial effects for the body. He discovered that there were indeed anomalous properties to the Hunza water. It had a different freezing and boiling point than ordinary water, a different viscosity and a different surface tension.”
Poi in Cina, dopo Kashgar, nuovamente in preda all’astinenza ci siamo ricascati con un bottiglia di “grappa molto locale” il cui sapore è assolutamente inqualificabile e ben lontano dal potere essere tollerato dai nostri palati. Ancora peggio dell’arak di mille chilometri prima. Come al solito: meglio astenersi fuori dal Bel Paese.
Lungo la strada che ci porta al Khunjerab Pass, a Karimabad splendida oasi Hunza, le albicocche la fanno da padrone: fresche o secche, schiacciate per produrre olio e poi in sapone. Sempre splendidamente arancioni a punteggiare i tetti, nelle giornate di sole, su ampi piatti panieri di canna.
Come sempre è il mercato il luogo di incontro e di scambio: dove frutta e verdura, cavalli e vacche, capre e pecore, polli e donne si comprano e si vendono in matrimoni combinati. Montagne di zucchero in grandi cristalli e caramelle rutilanti di colore ma assai meno di sapore ingentiliscono la ricetta umana della convivenza.
Kashgar non fa eccezione, anzi, è da sempre il più grande mercato della Via della Seta a queste latitudini, evidenziando con le sue merci gli incroci meticci delle etnie di queste montagne.
Marco Polo, Milione, Capitolo 50, Del reame di Casciar:
“Casciar fue anticamente reame; aguale è al Grande Kane; e adorano Malcometto. Ell’à molte città e castella, e la magiore è Casciar; e sono tra greco e levante. E’ vivono di mercatantia e d’arti. Egli ànno begli giardini e vigne e possessioni e bambagie assai; e sonvi molti mercanti che cercano tutto il mondo. E’ sono gente scarsa e misera, ché male mangiano e mal beono. Quivi dimorano alquanti cristiani nestorini, che ànno loro legge e loro chiese; e ànno lingua per loro. E dura questa provincia 5 giornate.”
Lamiàn a Kashgar vuol dire spaghetti, meglio “spaghetti stirati”: si fanno per strada con acqua farina e un pizzico di sale, ingredienti che impastati danno un prodotto morbido ed elastico che viene fatto, letteralmente, volare su e giù, a sinistra e a destra con abilissime e rapidissime rotazioni dei polsi del cuoco per allungarlo, stirarlo in chilometrici e sottilissimi vermicelloni. Poi immersi nell’acqua bollente si scottano e ci scottano per il calore sempre loro e spesso per il piccante con cui si innaffiano. Oppure si saltano in padella, fritti, e solo la fantasia frena l’armonia degli ingredienti che si aggiungono al sugo.
Per fare questi spaghetti stirati a mano servono 6 tazze di farina da dolci, 1 e mezza di farina normale e 3 tazze e mezzo d’acqua. Impastare gentilmente le farine aggiungendo l’acqua gradatamente fino ad avere un impasto soffice. Che si copre e si lascia una notte in frigorifero. Il giorno dopo lavorare nuovamente per una decina di minuti fino a quando la pasta non è bella elastica. Rollare l’impasto per realizzare un bel cilindro di circa 5/7 cm di diametro. E ora… viene il divertimento: fate come i signori qui accanto, più volte e più volte ancora. In pratica è un continuo stirare, piegare in due, stirare ancora… continuando a raddoppiare il numero di “fili” di pasta sempre più fine: i nostri lamiàn. Cuocerli 3 minuti in acqua e condire
Lungo tutta la Via il montone è la carne, il piatto addirittura, più presente. Spesso si tratta di un kebab ben rosolato e croccante all’esterno ma tenero dentro, affatto grasso né puzzolente, accompagnato da una insalata di pomodori, cipolla, peperoni verdi e coriandolo.
Si cuoce in bracieri lunghi un metro, stretti una ventina di centimetri, con la brace rossa e infuocata per il venticello che soffia lungo tutto il canale. Se invece il montone è tagliato in piccoli pezzi è saltato prima nell’olio, a cui si aggiunge dopo acqua e sale, carote e porri che si lasciano andare per venti minuti, quando ci si mette il riso, per altri quaranta minuti… ecco il piatto detto shouzhuafan, che significa “si mangia con le mani”, nella lingua uiguri. Infatti è il piatto favorito in questa area musulmana dell’Asia Centrale, servito a centro tavola e mangiato dai commensali con le mani, appunto. Solo i più benestanti, invece, possono permettersi un agnello di due anni, ben scuoiato e salato dentro e fuori, poi farcito con uova, zenzero e porri, infine cotto nel forno, il medesimo del nang, il pane.
Le piramidi sono tra il cibo preferito dagli Uiguri: si fa un impasto di farina e acqua, a cui si aggiunge lievito. Aspettare un’ora, aggiungere un poco d’acqua e impastare nuovamente. Poi qualche minuto di riposo. Tagliare a pezzi, spennellare d’olio vegetale e “rollare” ciascun pezzo. Quindi, una bella passata con del grasso di coda di pecora e salare e pepare la superficie… e “rollare” di nuovo. Tagliare in pezzi più piccoli e attorcigliare a spirale, dando una forma simile alla piramide. Si cuociono al vapore e si mangiano in genere con una zuppa.
Sanzi: si tratta di un tipico snack che si prepara impastando farina integrale con olio vegetale e il succo del “Chinese prickly ash” (Toothache tree, il cui nome botanico è Zanthoxylum clava-herculis ). Lavorare bene il composto, tagliarlo a pezzettini facendone degli spaghettini da friggere ben croccanti.
Lo yogurt è bevuto quotidianamente dagli uiguri di tutte le età. Il suo valore nutritivo è ben maggiore del latte fresco di pecora per l’acido lattico, gli amminoacidi, i minerali, le vitamine e e gli enzimi che contiene. Addirittura ha più proteine della carne, della farina e del riso.
Quanto gli spaghetti è il pane l’elemento comune. Anzi, il più diffuso attraverso tutta la Via. In genere basso e schiacciato, sempre caldo e spesso speziato, si chiama nang e si trova ovunque: è il cibo quotidiano dell’Asia Centrale, al posto del riso cinese.
Il nome nang viene dal persiano, infatti quello originale uiguri era aimaik: la nuova versione venne introdotta con la penetrazione dell’Islam nell’area. Le variazioni sono molteplici e prevedono tanti aromi diversi (aglio, sesamo, erba cipollina, peperoncino, cipolla, ecc.) o condimenti ancora più spessi, come la carne di montone, per insaporire un piatto unico che ha oltre 50 varianti. I più grandi si chiamano aimaike e shearmanare, usati nelle occasioni speciali, i più piccoli sono tuachi e katili, più adatti alla tasca o alla bisaccia della giornata di lavoro. Mangiarli per strada è una gioia, appena “colti” da un forno a pancia grande e con la bocca piccola che portato ad alta temperatura, quando la fiamma è morta, cuoce in 20 minuti il nang schiacciato sulle sue pareti interne. Ne esce una “pizza” croccante ma morbida al tempo stesso, saporita e ospitale ad altri contorni. Così come da sotto la sabbia… quando al posto del forno si usa quella fornace naturale che sono le bollenti dune del Takamaklan o dei Gobi.
Se poi vogliamo sperimentarlo a casa, la ricetta base prevede di sciogliere in acqua (3 tazze a temperatura ambiente) 2 cucchiai di lievito e, piano piano, 2 tazze di farina integrale girando sempre nello stesso senso. Poi lasciare riposare in una grande scodella, coperto, per una mezz’oretta. Quindi incorporare un cucchiaio di sale e poi aggiungere un cucchiaio di burro fuso (anzi, perché no: ne mettiamo tre di grasso di agnello sciolto). A seguire 3 o 4 tazze di farina normale, continuando a impastare fino a quando il tutto non è bene amalgamato. Spostare su una bella superficie che si e mantiene spolverata di farina (potrebbero servirne un altro paio di tazze) mentre ci si lavora l’impasto, lasciandogli assorbire tutta la farina che richiede: ci vorrà un quarto d’ora perché sia morbido ed elastico ma ancora appiccicoso. Pulire, asciugare e oliare (due cucchiai) la grande scodella: a questo punto metterci l’impasto, coprire bene e lasciare riposare 8 ore al fresco. Per cuocere, la cosa migliore è scaldare a 260 gradi una pietra da forno. Intanto che si scalda, si prende il nostro impasto, lo si taglia a metà e se ne ricavano, da ogni metà, 6 pezzi uguali che prima si fanno a pallottola e poi si schiacciano bene come una pizza piccola (circa 20 cm) per lasciarli infine riposare coperti, su una superficie infarinata, per un quarto d’ora. A questo punto spennellare d’olio, punzecchiare con una forchetta il pane, cospargere di sale e, se lo si desidera, di erba cipollina o altro. Sulla pietra scaldata si cuoce per circa 5/7 minuti fino a quando non è ben dorato, riposa per 5 minuti e… non aspetta che di essere gustato.