Laos: il Paese di un milione di elefanti – 2008
26 aprile 2008. Arriviamo a Vang Vieng dopo ventisette ore da quando abbiamo lasciato casa: tre voli e tre ore di automobile. Il salto è notevole e, per venire fin qui,… non ne valeva la pena. Vang Vieng è una cittadina sul Nam Song che conosce fortuna per il rafting, il tubing e qualche altro sport acquatico. Le guest house si alternano a ristorantini dove si lacrima mangiando cibo lao o thai sempre piccante – che per molti diventa “happy” per l’aggiunta di “maria”, funghi od oppio – stando adagiati sui divani letto davanti alla tv con Friends a tutto schermo. Per noi Vang Vieng è il punto di partenza per andare, prima, verso est nella Piana delle Giare e, poi, verso nord tra le minoranze etniche.
Viaggiamo in due sul classico pulmino centro asiatico da otto posti: comodi sulle tortuose strade laotiane. La nostra guida, per noi di nome “Pendii”, è un giovane padre di famiglia che ha lasciato il convento dove, come tanti nel Paese, ha avuto una pluriennale educazione da monaco prima di dedicarsi al turismo. È un buon esponente del partito laotiano: “lo sviluppo – mi racconta – sta arrivando anche per i tribali che sono spinti a inurbarsi lasciando le montagne: Akka e Hmong stanno costruendo nuovi villaggi, abbandonando i loro tradizionali costumi benché credano ancora negli spiriti”. Il giovane del partito non dice questo con astio: è solo troppo preso dalla ideologia dello sviluppo necessario e garantito uguale per tutti.
I circa 160 km da Vientiane a Vang Vieng si percorrono in tre ore: più si va a nord più il paesaggio assume contorni sinuosi disegnati da erte colline ricoperte di intensa vegetazione e segnato dai tanti fiumi. Tra questi il Mekong: oggi assetato per la stagione delle piogge appena iniziata e a causa di una diga cinese che ne frena il flusso. Ma ha sempre lo stesso fascino del grande fiume sulle cui rive cenavamo in Cambogia, in Birmania o in Tailandia. Le valli tra le colline e i fiumi sono pronte a riceve la pioggia per trasformarsi in specchi, culla del riso: sempre più prezioso anche se il Laos sembrerebbe meno toccato dalla crisi mondiale dei prezzi degli alimenti di base in quanto, con due raccolti l’anno, è in grado di provvedere a se stesso. Comunque tutta la grande Indocina è in sofferenza e non è sola. Tra speculazione e disegni ecologisti che fanno diventare il cibo carburante… chi ci rimette sarà la gente di questi Paesi che mangerà ancora meno. Ma forse avremo meno inquinanti in Europa.
Il Laos che scorre dal finestrino appare pacifico, quasi sonnolento come i suoi bufali d’acqua che si sollazzano nelle pozze. Credo che dovremo adeguarci per capire questa gente e la sua vita: ma oramai ventissette ore di viaggio con non più di tre di sonno cominciano a farsi sentire anche sulle rive del Nam Song, con le papille gustative bruciate e nelle orecchie il gracidare intenso dei ranocchi. Sembra un film e infatti… domani è un altro giorno.
27 aprile. Le parole che tornano più spesso sono “civilizzazione” e “sviluppo”. Per Pendii la prima rimanda all’idea di unità tra i laotiani: un popolo solo. E si connette alla seconda che ne diventa lo scopo ultimo per ogni popolo civile: significa urbanizzazione e capacità di intendersi parlando la stessa lingua. Mi fa un esempio:
“in Tailandia è un problema la politica con tutti quei partiti. Vedi, combattono da tempo nel sud perché ci sono i ribelli. Se fossimo stati in Laos era tutto risolto in un attimo. Quando qui sulla 7 (la strada che porta a est) ci sono stati i banditi abbiamo mandato l’esercito: un soldato ogni chilometro e in un anno non c’erano più banditi. Lo stesso faremmo in Tailandia. Perché qui siamo uniti: un solo popolo e crediamo nella parola e nell’insegnamento del nostro leader che ci guida, del quale possiamo leggere nei libri di storia e imparare”.
Fanno paura: Laos e Vietnam sono lanciatissimi…per lo sviluppo e la civilizzazione che è quella passata da noi coi serial televisivi. Ma loro ci credono sul serio e corrono come disperati verso la meta che noi gli abbiamo dato e che ci affonderà.
La foresta si arrampica sulla montagna. Sembra una acconciatura punk: una bella rasoiata a zero nei dintorni della strada principale, ma oltre l’asfalto il pelo verde rispunta ispido e incolto, lungo e arruffato con i bambù da venti metri. Il governo sta spingendo ad abbandonare il taglia e brucia, che ha devastato soprattutto il nord, ma con ciò costringe a cambiare le abitudini legate a quel tipo di tecnica originariamente nomade.
Nel complesso notiamo commercio locale e poco altro: i truck che vengono dalla Cina e che incrociamo nelle strade strette di montagna non sembrano appartenere a questi laotiani. Vivere per lavorare. Lavorare per sopravvivere. Vivere per sopravvivere. Molti di costoro non andranno mai oltre la collina. Se così non fosse noi a casa nostra dovremmo fare altrettanto: vivere per sopravvivere. Un risultato della globalizzazione è quello di avere parti del mondo specializzate per compiti particolari, tutte tra loro interdipendenti. Rispetto al passato – perché già era così a causa dello sviluppo ineguale del mondo anche se spiegato con teorie differenti – la rete globale oggi evita il ricorso alla politica delle cannoniere. Ma essa implica la condivisione di una morale e di un’etica. Almeno implicherebbe. E una assunzione precisa di responsabilità da parte di chi governa la globalizzazione. Se no è tutto un maledetto imbroglio… Insomma, noi che studiamo in università a Milano siamo responsabili del contadino che coltiva il riso in Laos!
A cena con guida e autista… E’ vero che sono più piccoli, ma hanno perso l’abitudine a mangiare. L’autista parla solo laotiano e pesa molto meno di 50 kg e avrà trent’anni: un quarto di pomodoro alla volta, un pezzetto di pollo a seguire, intendo un frammento proprio, un sorso di Beerlao e una lunga meditazione. Non so se ringrazia per il cibo o maledice l’idea di essere a cena con noi invece di strafogarsi altrove di rospi e bachi. Il bello dell’incertezza del viaggio.
28 aprile. Questa notte è cominciata la stagione delle piogge sul serio: i tuoni ci hanno fatto saltare dal letto mentre i lampi abbagliavano il cielo e l’acqua si buttava a secchiate sopra Phonsavanh. Per fortuna alla Piana delle Giare per le 7 tutto era finito, temporaneamente, per permetterci di vedere il mistero delle giare tra i crateri delle bombe americane e le trincee viet: oltre 2 milioni di tonnellate di bombe dall’alto, mente i guerriglieri hmong, col supporto segreto della CIA, tra il 1964 e il 1975, attaccavano i viet e l’esercito di liberazione laotiano. Il lascito è un bel mucchio di mine inesplose che ci costringono a restare nei sentieri segnati. Per gli abitanti che non fanno i turisti il lascito è diverso…
La strada per Luang Prabang è lunga e arzigogolata tra le più alte montagne del Laos. Luang Prabang ci ricorda quando eravamo a Phnom Pen quasi venti anni prima: una piacevole città coloniale francese dove oziare romanamente sulle rive del Mekong, dove infatti ceniamo. Il Mekong al buio attraversato da piccole lucine che segnalano una costante presenza umana: me lo immagino con le walchirie suonate dagli elicotteri a volo radente.
Il mercato notturno dispone le sue bancarelle dalle 17 in poi. E’ soprattutto roba per turisti: tessuti belli ma non molto diversi tra loro per centinaia di banchetti. Qualcuno vende i vecchi berrettini dei neonati e dei bambini più piccoli come si incontrano dall’Asia Centrale a qui: piccoli cappellini ricamanti, colorati, traforati, vellutati ma ormai abbandonati. Pochi altri portano oggetti recuperati dai vecchi tribali.
Quando acquisti e contratti ti rendi conto del valore dei soldi: se chiedi lo sconto su 120 dollari…. E’ concesso a 117. Se rilanci a 110 ti danno del matto: sette dollari? Ma capisci che il rilancio è basso perché un dollaro vale più di una cena. E loro di bocche da sfamare ne hanno. Accetti il gioco. Ci si rende anche conto come la percezione dello sconto valutato in percentuale rispetto al valore assoluto siano due cose molto differenti, per noi stranieri. Trattiamo per 5.000 kip, cioè 40 cent di dollaro. Ma non trattiamo per 2 dollari… che cosa sono per noi?. Credo che questa sia una esperienza che abbiamo provato tutti contrattando in tutti i mercati dei paesi del mondo. È strano che nessuno abbia pensato a questo fattore percettivo che tuttavia orienta il comportamento d’acquisto, ed è determinante nel definire il valore del denaro, quando si è passati dalla lira all’euro. Con il risultato atteso che in pochi anni il rate si è stabilizzato di fatto in 1 euro uguale 1.000 lire. O ci avevano pensato?
29 aprile. Luang Prabang conferma la sua indole sonnolenta, coloniale e francese almeno nell’area centrale dove facciamo browsing di tempi in tempio: belli, incantati più che incantevoli per la magia che colori e odori, frammisti ai ricordi di viaggio e alle memorie dei libri di avventura, riescono a suscitare in noi. Luang Prabang probabilmente è da vivere per qualche giorno in più: un’altra cosa che oggi ci ripromettiamo di fare e che troverà spazio domani tra le tante promesse mancate di viaggio.
Lo stesso placido fiume, che adesso è il Mekong ci accompagna per due ore di viaggio in barca fino alle grotte di Pak Ou , dove migliaia di budda risiedono nell’ombra accogliente della montagna. Si tratta di uno dei luoghi più turisticamente affollati di Luang Prabang: contiamo almeno altri 15 farangi oltre a noi, arrivati a coppie o in quartetto con la loro imbarcazione. Per fortuna non c’è troppo affollamento e ci si riesce a gustare quel po’ di intimità che la grotta con i suoi budda riesce a dare. In ogni caso, cento metri più in basso la densa acqua marrone del Mekong è sempre accogliente, a tratti uno specchio lucido calpestabile… per facilitarci, a sera, il rientro alla antica capitale, prima di continuare l’indomani di buonora il nostro viaggio verso nord.
Salendo al tempio alto della città di Luang Prabang un bel coleottero mi ha tagliato la strada, davanti al piede che stavo per appoggiare sul gradino. Non ho fatto tempo a esclamare che si è sentito un bel botto e il commento di Irene “devo aver pestato una bolla di plastica per imballaggio”. Invece al coleottero aveva fatto scoppiare in faccia la vita.
30 aprile. Sotto l’acqua si apre la mattina alle 6 con la processione di centinaia di monaci in arancione per la questua lungo le vie di Luang Prabang. Tanti lao riempiono le ciotole allungate, pochissimi turisti in un aprile di bassa stagione come tanti. Lo spettacolo merita se lo si guarda senza invadere gli spazi di chi sta compiendo un rito e non partecipando a una sceneggiatura.
A proposito della pioggia: è calda ma tutti se ne infischiano. In termini generali: perché noi italiani abbiamo sempre bisogno degli ombrelli? Quasi che la pioggia faccia male e ci sentiamo in colpa se ci troviamo bagnati da un acquazzone.
Proseguiamo verso nord per circa 90 minuti, poi sotto la pioggia che scroscia ci imbarchiamo su una lancia di otto metri per uno, alla volta del villaggio di Atki, patria della nostra guida. Un villaggio kamu e lao lou che ha il suo tempio buddista perché “nei villaggi kamu e hmong non ci sono templi perché loro, come i cristiani, credono negli spiriti, qui con i lao invece il tempio c’è“. Questa arguta affermazione ci è offerta alla meditazione per l’ora di lancia – acqua sotto e acqua sopra – non priva di sfida per la nostra cultura cattolica postmoderna. Al villaggio siamo accolti con grande ospitalità nella scuola per la cui biblioteca abbiamo portato alcuni libri comprati in una ONG di Luang Prabang e dagli abitanti, tutti parenti di Pendii. È l’occasione per vedere da vicino, entrare nelle case, stringere mani e fare fotografie insieme ai laotiani.
La nostra via prosegue poi per ore lungo una strada larga quanto una provinciale stretta – ma a pedaggio – e con numerose buche che ci porta a 34 km da Luang Namtha , dove si incrocia la strada per la Cina, distante solo 30 km. Da qui si corre su una via a due corsie che connette Cina e Tailandia attraverso il Laos. In ogni caso, per tutte le ore di viaggio abbiamo incontrato truck cinesi e pullman cinesi che in tre giorni arrivano dall’Impero a Vientiane con merci e persone che stanno invadendo il Paese.
Più andiamo a nord più vediamo scomparire le foreste grazie al taglia e brucia che imperversa: fumo e fuochi ovunque, colline e montagne spelate e decorticate da ustioni profonde, che la pioggia ripara rapidissima facendo ricrescere una peluria folta, ma ormai senza i grandi vecchi alberi e nel cimitero dei piccoli animali che tra le fiamme non hanno scampo. Sono grandi le estensioni bruciate e solo in parte ripiantumate a banane, grano, pioppi, ananas e alberi della gomma. Ma perché? Queste estensioni non hanno a che fare con la tradizione nomade del taglia e brucia, né con l’economia di sussistenza… Ma allora a chi tornano utili? Forse che i cinesi vedono nel Laos uno sfruttabile spazio per le loro esigenze alimentari di sofisticatissimi onnivori? Sono gli stessi mercanti, insieme ai tai, che spingono per il taglia e brucia. Perfettamente in linea con la congiuntura economica che vede il continuo rialzo dei prezzi di questi alimenti e in linea con la necessità cronica di questi paesi di sfamare i loro troppi abitanti. D’altra parte al ristorante una Beerlao costa 10.000 kip mentre una birra cinese costa 8.000 kip. Il Laos mi sembra che abbia delegato un po’ troppo ai vicini ingombranti le sue piste di sviluppo.
Sempre in tema di cibo: il miglior pranzo laotiano è stato consumato alla guest house The Boat Landing a Luang Namtha. Un luogo ameno sul fiume, ospitati in bungalow di legno tra il frinire delle cicale e il luccicare intermittente di migliaia di lucciole effimere.
1° maggio. Mentre andiamo a Moung Sing un iguana ci ha attraversato la strada buttandosi nella giungla “è molto buono da mangiare, sa di pollo”: mangiano, come i cinesi, tutto quello che ha un po’ di vita. Oggi al mercato bachi da seta freschi da assaggiare, pipistrelli, scoiattoli e pelle di bufalo secca.
Andiamo al mercato sul presto, dove si vendono i prodotti dell’orto, sperando di incontrare qualche minoranza come nelle icone che ci ricordavamo stampate nei libri. Solo una akka, per il resto i cinesi con gli abiti a basso costo stanno soppiantando le tradizioni.
Sempre più a nord ci fermiamo al check point del confine cinese e poi da qui browsing per i villaggi akka, iao, hmong, … dove gli anziani ancora vestono i costumi tradizionali e producono pochi beni per i pochi turisti che vi arrivano. Gli altri sono in montagna a tagliare e bruciare. Ne incontriamo una ventina tutti armati di AK47… Non ci è chiaro l’uso anche se Pendii ci dice che sono militari che vanno al lavoro in montagna… Questo alle 17, molto bene armati, senza alcuna uniforme e senza un utensile. Sarà così.
2 e 3 maggio. Ci imbarchiamo su un volo della Lao Air per Vientiane: 60 minuti su un MA60 della Xi’an Aircraft Company della China Aviation Industry Corporation nuovissimo, come l’aeroporto di Luang Namtha, che può ospitare un solo aereo per volta e che, tra i due voli settimanali che lo collegano alla capitale, asfalta la pista. Le pratiche di sicurezza non sono quelle a cui siamo abituati: gli xray per i bagagli ci sono, ma poi ti restituiscono il bagaglio; a bordo non si muore di sete, perché ti porti in mano bottiglioni di lao lao, il liquore locale; i pompieri sono un estintore da 25 kg, carrellato, posizionato in piazzola. Insomma, un volo perfetto fino alla Capitale.
Vientiane: i più bei templi del Laos, tra coorti di antichi budda che silenziosi custodiscono le tradizioni superstiti delle guerre e stupa d’oro verso il cielo. Ville coloniali francesi riadattate ad alberghi e sedi di istituzioni. O tuttora parte di Francia come l’ambasciata nel suo grande compound verde che non si è modificato negli ultimi cinquant’anni. Una città su cui sventolano due bandiere: quella Nazionale tricolore e quella rossa, con falce martello, per ricordare di essere in un paese superstite del comunismo. Un ponte all’amicizia che collega questo vecchio rivoluzionario pre 1989 con il vicino capitalista tailandese. I tantissimi ristorantini e birrerie sul Mekong da dove salutiamo una Nazione ospitale con un’ultima esperienza gastronomica.