Kathmandu, porta per il Tibet – 2010/1
Dal 1° al 4 agosto: in giro per Kathmandu, é solo una sosta tecnica sulla via per il Tibet che percorreremo in auto fino a Lhasa, poi da qui in treno per Xining e poi in aereo per Pechino.
Quando non è la prima volta che torni nel medesimo Paese, oltre che goderti meglio le sensazioni curandoti meno delle informazioni, ti rendi conto di particolari fino ad allora non valutati, le sfumature che fanno sì che un quadro bello diventi qualcosa di notevole.
Per esempio, questo ritorno a Kathmandu ha sottolineato – magari a torto per una eccessiva sensibilità del momento… ma non importa – l’insistenza dei venditori per turisti che affollano la città e le vicinanze comandate dalle guide. Ho identificato alcune strategie consolidate.
La strategia dell’ Er Più… (da romanesco): è fondamentale comunicare al turista che proprio li, dietro l’angolo c’è “la più grande piscina dell’Asia”, “l’edificio che ha 965 finestre” e non una di meno o di più, “la più bella finestra intagliata della valle” e via di seguito. L’importante è che sia l’ Er Più… di qualcosa, o almeno abbia una specificità che lo distingua perfettamente da quello che non è (tre è diverso da non tre), perché ciò lo qualifica come un necessario spot turistico da non perdere. Io non vedo l’ora, qui a Kathmandu, di sentirmi proporre di vedere il più grande dei più piccoli Budda dell’Asia, affinché anche la perfetta medietà possa diventare attrazione turistica eccellente. In fin dei conti ciò sarebbe la consacrazione del “tutto è possibile” che molto spesso è anche ciò che il turista ricerca, immedesimandosi fino in fondo nella sua nuova identità che confonde Indy con Fantozzi.
La strategia dell’ Uno ”, l’ Ek scritto come un punto interrogativo tra gli occhi del Budda nepalese per richiamare all’unità delle cose, ha un altro significato nel linguaggio dell’economia turistica. Infatti, ogni venditore che ti approccia ti vende qualcosa che vale uno: un piffero o un ciondolo, un portafoglio o una statuetta. L’ Uno , inoltre, dipende dalla nazionalità monetaria del potenziale acquirente: un dollaro, un euro, … In un attimo l’offerta si adegua e, per esempio, da un dollaro diventa un euro quando il procacciatore capisce che sono italiano. Geniale: niente conti complicati, tutto è ridotto all’unicum perfetto senza cambi né fratti. Inoltre, non si vende l’oggetto ma l’affare! A chi importa di avere un piffero, un portafoglio o un ciondolo in osso di yak? A nessuno. Ma la valutazione dell’acquisto non ti viene suggerita in funzione dell’oggetto (che in genere non serve a nulla) ma rispetto al valore che gli attribuisci, cioè all’affare. Anzi al doppio affare che proponi all’italiano: prima un dollaro, poi un euro. “Ma io gli propongo un dollaro così ho il cambio a mio vantaggio! Che furbo e che affare!” Così si conclude con la doppia soddisfazione di chi compra e di chi vende.
Di contorno a queste strategie, si può notare che entrambe vengono promosse da fasce deboli (diremmo così in Italia): vecchi e bambini, vedove e storpi che hanno una loro specifica capacità di penetrazione anche se non una sufficiente capacità di motivazione all’acquisto. La vera spinta è nel dubbio dell’affare e la compassione eventuale per il venditore giustifica il risultato potenziale raggiunto.