Tra gli Yanomami dell’Alto Orinoco, l’Ocamo – 1997
29 aprile 1997
Ci svegliamo all’alba e dopo una veloce colazione ci spostiamo in bongo lungo l’Ocamo verso la Sierra Parima, al confine orientale con il Brasile. Confrontandoci scopriamo di avere tutti la stessa sensazione temporale, alle 11.00 sembra di essere alle ore 16.00 del pomeriggio. Inoltre ci appare evidente che gli Yanomami non abbiano degli orari fissi per la colazione, per pranzo o per cena: il tutto è regolato dalle proprie esigenze fisiche.
E’ un altro luogo e un altro tempo. Entrambi labili, indefiniti, ma soggettivi e personalizzati. Mangi quando ai fame, fai acqua dove ti scappa. E tutto procede con inevitabile naturalezza. Tanto intollerabile per me quanto sono il prodotto di una cultura lontana.
L’Ocamo si restringe notevolmente (mantenendo sempre 40/50 metri di larghezza!). Il fiume è di colore marrone e l’alta concentrazione di argilla ostacola notevolmente la filtrazione necessaria per potabilizzare l’acqua. Sembra di percorrere un canale per le alte sponde di argilla, soprattutto la sponda esterna al corso. La fauna è aumentata notevolmente così come l’altezza degli alberi.
Dalle ore 7.00 alle 12.00 risaliamo l’Ocamo per approdare a una piccola oasi, con tanto di cascata, nel mezzo della foresta. Ci godiamo l’acqua pulita e fresca con un gran bagno: non abbiamo bisogno del filtro per riempire le borracce.
Finalmente godo apprezzando la natura fresca di una cascata da bere senza il potabilizzatore. E’ il massimo del piacere.
Alle ore 13.00 ripartiamo in bongo e continuiamo ancora per alcune ore la navigazione per poi fermarsi in un altra comunità di Yanomami. E’ molto piccola. Ci sono cinque capanne disposte in modo tale da lasciare un grande spazio centrale in terra battuta e circa una ventina di persone. Non tutti accettano di farsi fotografare e molti rimangono nascosti nelle capanne. Dopo una decina di minuti alcuni spinti dalla curiosità vogliono guardare nelle macchine fotografiche. A Michele vengono dati due schiaffoni amichevoli (?), a Barbara e Irene vengono “spremuti” i seni (?). Ma il ghiaccio è rotto: Michele non è cattivo e quelle due sono proprio delle donne, sembra essere la conclusione raggiunta dai nostri ospiti. Dopo la diffidenza iniziale la loro ospitalità e la loro amicizia è grande.
La vecchia Yanomami tiene in mano l’automatica gialla, dalla quale parte il flash scattando la foto. Prendo al volo la macchina prima che si schianti per terra. Il giovane Yanomami cerca fuori dalla telecamera la realtà che gli mostro riprodotta nel mirino. Ma sconcertato non la trova. Così ho rotto il ghiaccio con loro: posso usare i miei strumenti per catturare le loro immagini. Così ho rotto tante loro certezze: non possono più guardare il mondo con gli occhi di prima, dopo che io gliel’ho portato via.
Rientriamo al “villaggio base” per le 19.30. L’escursione è durata circa 12 ore tra cui 9 di navigazione (5 montando la corrente e 4 ridiscendendola).
Dopo un buon risotto in busta ci addormentiamo.
30 aprile 1997
Oggi è per noi l’ultimo giorno di permanenza nel villaggio di Lucio. Dopo colazione prepariamo il nostro equipaggiamento. Lucio ne approfitta per indire una piccola riunione durante la quale viene stilata una lista dei materiali necessari al villaggio che dovevano già essere recapitati da parte della missione che ha sede in basso Ocamo, a circa un giorno di bongo verso occidente.
Si sentono dimenticati. Conoscono la nostra civiltà: il guerriero Yanomami perfettamente vestito con una camicia occidentali a scacchi e… null’altro ne è l’esempio. Conoscono il nostro mondo per i bisogni che ha generato: d’altra parte quando mi vedono accendere il fuoco con l’accendino con tanta poca fatica, invece di strofinare due legnetti, non possono non desiderare l’accendino. La natura sembra avere distribuito l’intelligenza in maniera abbastanza democratica.
Terminata l’operazione riusciamo a video-intervistare Lucio che espone i problemi dell’Amazzonia e degli Yanomami. Alla fine i personaggi più importanti della comunità vogliono vedere nella telecamera l’intervista.
Si sentono dimenticati. Accusano il governo venezuelano di dimenticarsi con malizia di loro. Accusano i politici di ricordarsi con malizia di loro. Accusano i missionari di sognarsi di loro guidati verso il progresso. Lucio mi impressiona, perché con semplice chiarezza e frequenti ripetizioni elenca i loro bisogni: sanità, educazione e trasporti. Affinché degli stranieri casuali si assumano la responsabilità di comunicarli al mondo.
Carichiamo il bongo e con stupore notiamo che l’equipaggio è aumentato notevolmente (da 9 a 16), saremo accompagnati sino a La Esmeralda da una delegazione di protesta: il capitan del villaggio, con moglie, figli e bambini. Lo spazio vitale è minimo.
La densità di persone per chilometro quadrato è minima in Amazzonia … perché sono tutti dentro al nostro bongo?
Alle ore 14.00 arriviamo al villaggio di Capitan Usto (collaboratore di padre Cocco) dove, dopo una piacevole accoglienza da parte di un formichiere, ci scontriamo con un esponente del villaggio il quale non vuole foto e ci chiede i permessi governativi. Ci viene permesso di visitare le capanne, che sono molto più ampie di quelle viste sino a ora e sono pluripiano.
Siamo limitati nei nostri spostamenti perciò ripartiamo per raggiungere la missione di padre Bortoli. Veniamo accolti in modo poco amichevole da due suore e da un volontario: ci chiedono i permessi governativi che non abbiamo, disponendo noi dei permessi dell’Alcaldia locale. Per questo ci vogliono denunciare alla Guardia Nazionale. Ci trattengono sul molo per più di venti minuti. Lucio afferma che il permesso dell’Alcaldia, in nostro possesso, basta e avanza; ma le suore insistono con il loro ostruzionismo. Alla fine Lucio ci porta da un tale Antonio, membro del consiglio degli Yanomami. Antonio si mostra ospitale e gentile. Ci accomodiamo nella sua capanna. Lucio ed Antonio discutono animatamente. La conclusione è che dobbiamo ritornare alla sera per un summit generale.
Per la prima volta, sul moletto in riva all’Ocamo, di fronte alla missione, ci sentiamo indesiderati. La foresta è tiranna e piega gli animi ai principi della sua legge, ma anche gli uomini si adeguano troppo facilmente.
Con Lucio attraversiamo il fiume per raggiungere un villaggio vicino alla missione dove vive la sorella. Qui ci ospitano in una capanna priva di pareti e questo ci da sollievo visto il caldo torrido che ci ha accompagnati per tutto il giorno. Si fa sera. Irene e Barbara rimangono al villaggio per organizzare l’accampamento. Michele e Marco ritornano alla missione dove incontrano una delegazione di Yanomami, l’ infermero Antonio, le due sorelle e Lucio ovviamente. Lo scontro più duro è tra Lucio e l’ infermero (“ministro” della sanità indigena). Oggetto delle due ore di discussione è il nuovo Municipio Indigeno che si vuole creare, nonché i vari poteri di competenza. Ci vengono riproposti i problemi dell’Amazzonia.
Comprendiamo meglio i problemi relativi ai permessi: lo scontro su chi possa autorizzare le persone a venire nell’area rimanda a due concezioni antagoniste: la terra appartiene e agli Yanomami ed è il loro consiglio che, insieme alle autorità locali, concede i permessi; la terra è venezuelana e, dunque, solo il Governo Federale ha questo potere.
Finalmente ci congedano chiedendoci però un’intervista all’ infermero per l’indomani. Torniamo al nostro accampamento dove esausti ceniamo. Piove per tutta la notte.
Nel villaggio della missione abbiamo notato unghie dei piedi sostanzialmente pulite. Per la prima volta le dita non sono marcite né gli occhi velati da troppe mosche. Questa è la vera testimonianza del lavoro che qui svolgono pochissimi missionari. Io credo che molti di loro salvino tanta umanità perdendo della propria, per questo non li giudico, perché io, in fondo, passo molto rapidamente per la loro esistenza.
1° maggio 1997
Appena svegli ci riorganizziamo al meglio e ritorniamo alla missione per l’intervista. Dopo questa ci dirigeremo verso La Esmeralda. In una capanna si svolge una riunione facilmente individuabile per urla e schiamazzi di tono elevato. Per la prima volta notiamo anche la presenza di alcune donne: sono le più eccitate. Tutti hanno coltello o machete in mano, lo agitano e si picchiano di piatto. Noi stiamo ai margini.
E’ vero che le botte le prendono soprattutto le donne. Ma in questo caso le danno anche con abbondanza. Il machete è democraticamente distribuito tra i due sessi.
Qui conosciamo Capitan Usto, poco dopo videoregistriamo l’intervista all’ infermero Antonio, il quale ci spiega come dovrà svilupparsi il nuovo Municipio Indigeno. Terminata l’intervista saliamo sul nostro bongo direzione La Esmeralda. Il viaggio è lungo e noi siamo stravolti ma godiamo nel vedere alcuni degli animali del fiume (coccodrillo, iguana, razza).