Tra gli Yanomami dell’Alto Orinoco, La Esmeralda – 1997
1° maggio 1997
Arriviamo a La Esmeralda nelle prime ore del pomeriggio e veniamo accolti dal prefetto, anzi siamo suoi ospiti soprattutto perché è la festa dell’Alcaldia e del lavoratore: la festa ci stravolge definitivamente, soprattutto quando il prefetto apre per noi una bottiglia di costosissimo, buon, caldo whisky. Ahinoi! Siamo tornati alla pseudo civiltà. Approfittiamo di uno spaccio per fare la spesa di dolcissime lattine di sempre caldo frescolito. Tanto è buono che torniamo a pompare l’acqua dal fiume e a potabilizzarla.
Il sogno di una birra fresca aveva reso più sopportabili le circa 10 ore di navigazione nello spazio ridottissimo del bongo. Ma qui non c’è: la birra non c’è proprio, è l’unica grande delusione della spedizione.
Ci accampiamo per la notte sotto ad una tettoia con le nostre guide. In mattinata dobbiamo tornare dal prefetto per confermare il volo del rientro a Puerto Ayacucho. La pista a differenza di Meteconi è asfaltata e lunghissima. Ceniamo e affrontiamo una notte ventosa e caratterizzata da nugolo di mosquitos .
2 maggio 1997
Dopo colazione Marco e Michele si dirigono dal Prefetto per confermare il volo, Barbara e Irene si occupano di riorganizzare le nostre masserizie. Intanto, notiamo che Lucio con delle lattine vuote, da noi gettate, ricava un set di bicchieri. Dalla prefettura, dopo alcuni tentativi finalmente ci mettiamo in contatto radio con la torre di controllo di Puerto Ayacucho: mentre ci danno conferma del volo vediamo il nostro aeroplanino atterrare.
In tempo reale: “sì, il vostro aereo sta arrivando” dice la radio di Puerto, infatti “lo vediamo atterrare”, rispondiamo da Esmeralda. Senza computer né televisione, alcuna diretta sarebbe più stata in tempo reale come questa.
Prepariamo i bagagli e partiamo per il rientro nella civiltà. Il pilota è un tipo simpatico: conosce l’italiano perché ha volato nei nostri cieli per conto dei libici. Poi si è trasferito a volare sopra la foresta. Non indaghiamo. L’equipaggio oltre a noi quattro è composto da il volontario della missione incontrato due giorni prima e due ragazzini, molto probabilmente affetti da malaria.
Mi siedo accanto al pilota e dunque possiamo sentirci malgrado il fracasso delle eliche. Il pilota mastica l’italiano, perché ha volato per i libici sopra i nostri cieli anni addietro. Poi è venuto a volare sopra la foresta. Racconta che nel volo precedente aveva una donna Yanomami ammalata diretta all’ospedale a Puerto, accompagnata dal figlio. Entrambi si lamentano, chi per la malattia chi per la paura. Ma la donna muore in volo: il pilota accelera al massimo, ha paura che il giovane Yanomami dia la colpa della morte a questo strano uccello di latta e che lui, il pilota, finisca vittima della vendetta. Il suo viaggio non è piacevole. Sbarca a Puerto con grande rapidità, abbandonando il carico umano sul Cesna.
Il nostro volo è piacevole ed in tarda mattinata arriviamo a Puerto Ayacucho dove l’amico Pepe ci raccoglie per poi scaricarci in albergo. Finalmente riassaporiamo cosa significhi privacy e soprattutto il piacere di una doccia.
Non è finita. Dopo il sollievo che mi prende per la doccia e la frescura di una birra, comincia già il ricordo, poi le promesse fatte a chi abbiamo lasciato nella foresta. Ho capito che gli amici sull’Ocamo non vogliono diventare come noi, ma non vogliono restare come sono. In fin dei conti chiedono di non morire, almeno non proprio tutti, trentenni di malaria. E visto che noi ci riusciamo, si aspettano che gli spieghiamo come. Mi sembra un desiderio legittimo. Come quello di sparare ai coccodrilli in una riserva integrale, che in fondo è tale solo per chi la guarda da fuori e non ci vive. Tuttavia, so che fra qualche giorno le mie preoccupazioni per loro saranno diminuite e le promesse più sfuocate con il passare dei mesi. Per questo devo tornare, per rinsaldare i legami che impegnano, compromettono, rinforzano e vivificano.